la dittatura

 

 

 

 

 

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on il discorso del 3 gennaio 1925 si apriva una nuova fase nella storia nazionale: il fascismo si presentò come una dittatura repressiva. Vennero limitate le libertà di stampa e di associazione, poi il governo si rafforzò con numerosi strumenti: la possibilità di promulgare decreti e norme con validità immediata e l’accentramento di funzioni prima appartenenti ai comuni.  Fu creato un tribunale speciale per giudicare i delitti contro lo Stato (1926) e fu prevista la revoca della cittadinanza per i nemici dello Stato (ovvero del fascismo) e il sequestro dei loro beni. Questi provvedimenti presero il nome di «leggi fascistissime».

Il 4 novembre 1925 fu scoperto un complotto per uccidere Mussolini organizzato dall’onorevole socialista Tito Zaniboni e dal generale e senatore Gaetano Giardino e fu usato come pretesto per restringere ulteriormente le libertà.

Nel 1926 fu istituito in tutti i comuni il sistema podestarile: i sindaci elettivi venivano sostituiti da podestà a carica quindicinale nominati dal prefetto in accordo con le autorità locali del partito. I podestà assumevano tutti i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio comunale.

Venne abolita la segretezza del voto e ciò fu la causa dei risultati delle elezioni del 1929:  8 milioni e mezzo di consensi contro 135.761 oppositori. A ogni modo gli storici sono concordi nel dire che anche in presenza di un’opposizione e di una maggiore libertà di voto il fascismo avrebbe stravinto. Mussolini infatti aveva meticolosamente curato i rapporti con la Chiesa, le forze armate ed economiche, poteri indispensabili a garantire la saldezza del suo: la grande e piccola burocrazia pubblica e privata, l’esercito, gran parte dei cattolici aderirono al fascismo dandogli forza, ma togliendogli al contempo molto slancio innovatore. Sarà questa adesione solo formale una delle cause della crisi del regime di quasi vent’anni dopo.

Il regime però godeva anche di prestigio all’estero, gli scioperi erano finiti, l’economia migliorata, la disoccupazione calata. Non era migliorata invece la situazione di operai e contadini, i quali preoccupati di salvare il salvabile più che di organizzare una tenace opposizione e rassegnati dalla vittoria del fascismo, erano orientati più che altro a non perdere ciò che avevano potuto salvare e a non perdere quei benefici normativi che la politica “sociale” del regime gli aveva dato.

 

 

L’economia

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a prima importante decisione economica fu presa da Mussolini a Pesaro, nel 1926, quando, durante il suo discorso, ordinò una politica di deflazione della lira. L’operazione venne attuata dal ministro delle finanze Giuseppe volpi (l’ordine di Mussolini era di portare la lira a «quota novanta», ovvero far sì che una sterlina corrispondesse a novanta lite). La lira fu rivalutata, favorendo le aziende elettriche, importatrici di capitali e, in genere, le aziende importatrici di capitali; d’altro canto però danneggiò le altre industrie, le banche che le finanziavano, le esportazioni e gli imprenditori agricoli. Mussolini cercò di contrastare il fenomeno, non riuscendo a fare però niente di meglio che una imponente serie di lavori pubblici e la «battaglia del grano».  Uno dei provvedimenti più importanti, però fu la «bonifica integrale»: egli voleva recuperare quelle zone dell’Italia non ancora in condizioni dei essere sfruttate, come le paludi pontine. Nonostante i lavori pubblici, le condizioni dei ceti popolari nel 1929 erano peggiorate: essi cominciarono a riversarsi nelle città dalle campagne, spingendo il fascismo ad irrigidire le già esistenti leggi contro la migrazione interna e ad esaltare la vita campestre e rurale. L’obbiettivo del ruralismo era quello di controllare strettamente la mobilità sociale. Tale politica però fallì miseramente, facendo riversare in città masse di contadini, inasprendo i rapporti tra classi sociali e sfatando così uno dei miti della  retorica fascista: il superamento dei conflitti di classe in una sintesi superiore basata sul corporativismo.

La teoria corporativa fece il suo ingresso nei programmi fascisti nel 1921. Il corporativismo si proponeva di superare i conflitti tra lavoro e capitale mediante l’azione conciliatrice dello stato. Le corporazioni rappresentavano sia i lavoratori sia i datori di lavoro; avrebbero dovuto autoregolarsi con statuti e organi creati appositamente, anche se in realtà ricevettero sempre ordini dall’alto.

Tale progetto si può far cominciare nel 1925 con il patto di Palazzo Vidoni, con cui gli industriali riconoscevano i sindacati fascisti come unici rappresentanti dei lavoratori; l’anno successivo fu abolito il diritto di sciopero e di serrata. Nel 1926 vennero istituite le Confederazioni parallele di lavoratori e datori di lavoro, gettando le basi per lo stato corporativo. Dato lo scarso interesse di Mussolini per il corporativismo,  il principale teorico e artefice fu Giuseppe Bottai, principale autore della Carta del lavoro, in cui il lavoro veniva definito come dovere sociale e in cui si sostenevano i diritti dei lavoratori su orari e festività, ferie, indennità per licenziamento o morte, divieto di licenziamenti per malattia, periodo di prova, lavoro a domicilio. All’idea di Bottai, però, convinto che le corporazioni dovessero godere di ampie autonomie, prevalse quella di Rocco , secondo il quale le corporazioni dovevano essere rigidamente assoggettate allo Stato. L’esito finale del corporativismo, comunque, fu quello di favorire il capitale e rafforzare la religione laica, ovvero la fascistizzazione delle masse: il regime era penetrato nella vita del popolo tramite il suo elemento principale, il lavoro.

Nel 1931 venne creato l’IMI, con il compito di accordare prestiti ad aziende private in difficoltà. Nel  1932 venne fondato, per risollevare le sorti del paese, l’IRI, che aveva la funzione di risanare le imprese private acquistandone una compartecipazione. Tuttavia la crisi persistette, specie per il fatto che il governo non seppe imporsi agli imprenditori.

Bisogna però dire che il regime prese alcune importanti iniziative: il blocco biennale del prezzo degli affitti, della luce, dell’acqua, del gas e dei trasporti; poi la progressiva riduzione degli orari di lavoro fino alla soglia delle 40 ore. Nel 1933 venne ristrutturato l’INPS, diretto da Bottai dopo la sua sostituzione nelle corporazioni; creò il primo nucleo del sistema pensionistico e un apparato di controllo delle malattie professionali e degli incidenti sul lavoro.

 

 

L’accordo con la Chiesa

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’accordo fascismo-Vaticano non è così strano come potrebbe sembrare: la Chiesa aveva in comune con il fascismo tutti i nemici, condivideva con esso il bisogno di ordine, disciplina e gerarchia. La mossa che costituì un enorme vantaggio per il Vaticano e un successo per Mussolini fu il Concordato del 1929. Le principali richieste della Chiesa erano l’assoluta sovranità dello Stato pontificio e l’abrogazione delle Guarentigie. I Patti vennero firmati l’11 febbraio 1929 nel palazzo del Laterano: erano una serie di accordi che comprendeva un trattato per chiudere il problema del riconoscimento fra Stato italiano e Stato del Vaticano, la relativa convenzione finanziaria e il concordato vero e proprio. Il primo articolo dichiarava la religione cattolica come religione di Stato. L’Italia riconosceva l’esistenza e la piena indipendenza dello Stato pontificio, che a sua volta riconosceva il Regno d’Italia. Quanto alla convenzione economica al Vaticano furono dati un miliardo e settecentocinquanta milioni di lire, oltre ad una serie di vantaggi fiscali che si rivelarono ben più onerosi. Anche il duce ottenne però un vantaggio enorme dal pontefice: veniva investito di un alone sacro e sovrannaturale, sancendo il passaggio da culto del fascismo a culto di Mussolini.

Nonostante la sua apparente disponibilità e benevolenza nei confronti della Santa Sede il duce non voleva rinunciare  ad avere il monopolio delle associazioni giovanili, negatogli con il Concordato. Così dopo una serie di scontri verbali Pio XI si pronunciò in questo modo:«Il fascismo si dice e vuol essere cattolico: orbene, per essere cattolici non solo di nome ma anche di fatto, e non cattolici di falso nome […] non c’è che un mezzo: ubbidire alla Chiesa e al Suo Capo […]». Per Mussolini era troppo. Il 29 maggio del 1931 ordinò ai prefetti di sciogliere la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e tutti i circoli giovanili che non facessero parte dell’ONB (Opera Nazionale Balilla). Il papa alla fine di luglio pubblicò l’enciclica “Non abbiamo bisogno”, in cui riconosceva i benefici ricevuti dal fascismo, ma riaffermava che non avrebbe ceduto l’educazione dei giovani a vantaggio di un partito che si risolveva in una “statolatria pagana”. La situazione venne risolta con un compromesso per cui le varie associazioni cattoliche sarebbero state decentrate e la bandiera dell’Azione cattolica sarebbe stata il tricolore.

In apparenza Mussolini aveva vinto, ma in realtà non riuscì a controllare l’Azione cattolica, nonostante il decentramento. La pace definitiva venne suggellata l’11 febbraio 1932 quando il papa insignì Mussolini dello Speron d’oro, la massima onorificenza civile del Vaticano. Da quella data fascismo e Vaticano proseguirono felicemente insieme per tutti gli anni della pienezza del regime.

 

 

La politica estera

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ino al 1932 la politica estera fascista fu essenzialmente pacifica, anche se Mussolini le dedicò sempre un’attenzione particolare. In essa il duce cercò dei successi e dei diversivi per puntellare il prestigio del fascismo nel Paese. Sfortunatamente per lui, però, Mussolini era più un capofazione che uno statista, e molti storici sono concordi nel dire che la politica estera fu il tallone d’Achille del regime. Fino al 1932-35 il duce seguì una politica pacifica perché non credeva che l’Europa, né l’Italia fossero pronte ad entrare in guerra, ma la possibilità di questa fu sempre nei suoi pensieri e nella sua attesa si sforzò di far sì che i rapporti internazionali tra le altre nazioni non divenissero mai troppo stabili e consolidati. Il duce volle far capire fin da subito, però, che l’Italia fascista sarebbe stata dinamica, in concorrenza con la Francia nella regione danubiano-balcanica e con la Gran Bretagna nel Mediterraneo, rinominato con Mare Nostrum.

Mussolini aveva un piano semplice e preciso, ma altrettanto pericoloso: mantenere l’Europa in tensione, eccitare le ostilità fra Stati per poter poi trarre vantaggio dai litigi altrui.

Gli atteggiamenti del duce erano anche stimolati dalla necessità propagandistica della politica interna; la grinta dura nei rapporti internazionali piaceva a un popolo «che aveva sempre sofferto di complessi di inferiorità internazionale» (G.B. Guerri). Mussolini fu indubbiamente abile nel dare agli italiani l’impressione di contare qualcosa. Il duce, nel 1922, fu prima a Losanna, poi a Londra per discutere i trattati di pace.

La sua pericolosità esplose tra l’agosto e il settembre del 1923, dopo l’uccisione del generale E. Tellini, in missione internazionale a Corfù. Il governo greco non aveva responsabilità, ma Mussolini avanzò richieste inaccettabili, che infatti furono respinte. Ordinò allora di occupare Corfù inaugurando la tendenza all’imperialismo fascista, l’aggressione armata di uno Stato più debole basata sul fatto che nessun altro Stato avrebbe per questo preso parte al conflitto. L’immediata conseguenza fu l’irrigidimento dei rapporti tra gli altri stati europei e l’Italia. Anche se l’Italia fu costretta dalla Società delle Nazioni  a ritirarsi, quell’evento fu mostrato come un trionfo della politica estera fascista.

Nel 1924 Mussolini ebbe il primo vero successo in politica estera, stipulando il trattato con il governo jugoslavo il trattato che consentì l’annessione di Fiume all’Italia. Come segno di riconoscimento Vittorio Emanuele III lo insignì del collare dell’Annunziata, suprema onorificenza sabauda, che lo rendeva parente del re.

Nel 1929 il ministero degli Esteri fu affidato a Grandi, che si liberò subito dell’impronta aggressiva data da Mussolini alla politica estera. Seppe inserire l’Italia nella discussione di tutti i problemi internazionali e fascistizzò il ministero degli Esteri. Non soddisfatto della sua politica che «aveva allontanato l’Italia dal binario di una politica realistica» Mussolini lo sollevò dall’incarico.

Nel 1933 Hitler conquistò il potere, nove mesi dopo uscì dalla Società delle Nazioni, ma l’avvicinamento italo-tedesco non fu immediato; di fatto Mussolini temeva che la Germania potesse entrare in concorrenza con l’Italia nei Balcani e che Hitler volesse l’annessione dell’Austria, che avrebbe messo in pericolo il confine del Brennero. Quando nel 1934 i nazisti tentarono un colpo di stato a Vienna, Mussolini si oppose, schierando truppe al confine e minacciando la guerra. Egli, con gli italiani condivideva l’atavico odio per i tedeschi, accresciuto dall’anticattolicesimo e dal mito della razza nordica propugnato dai nazisti. Hitler però si armava e potenziava con ritmo incessante, costringendo il duce ad un avvicinamento a Gran Bretagna e Francia. Crollava così l’esasperante e pericolosa politica estera dei Mussolini, condotta a vuoto per dieci anni.